Jago, l’altro lato della scultura

Sapete una cosa, più passa il tempo, e più mi rendo conto che nella vita sono essenziali i me ne frego detti nei momenti giusti. Come nella storia che sto per raccontarvi.

Scolpire è parte del nostro essere. Se a tavola c’è qualcosa di abbastanza morbido che si può incidere, da un tappo di plastica a una lattina di alluminio di una bibita vuota, il bambino che è seduto accanto a te, prenderà il coltello e cercherà di modellare quell’oggetto fino a quando non lo farai smettere, impedendogli di tagliarsi un ditino. È ancestrale. Le sculture più antiche risalgono a 12mila anni fa. Scolpire qualsiasi cosa – legno, pietra, marmo, vetro, argilla, metallo – è nel nostro DNA dalla notte dei tempi. Facciamo la guerra, distruggiamo quello che abbiamo intorno, ma siamo anche capaci di realizzare il David di Michelangelo, la Statua della Libertà o i Moai, i monoliti dell’Isola di Pasqua, e farli diventare un patrimonio di tutti.

Pensate alla mano di Adamo, quella della “Creazione” di Michelangelo. C’è Jacopo Cardillo, uno scultore, nato a Frosinone nel ’87, che l’ha scolpita quasi uguale.

Dice lui. «È la prima scultura finita che ho fatto in vita mia, in marmo. Si intitola “Ego”. Ed è il mio autoritratto. Non avevo un grande blocco di marmo per fare un ritratto perché questo in origine era un sasso di fiume. Allora la mano era il riassunto perfetto della personalità. Quindi con una mano potevo raccontare una persona. Ecco perché sono molto affezionato alla mano. L’ho fatta che avevo 18 o 19 anni e adesso la distruggerò, nel senso che la trasformerò. Perché quand’è che un’opera d’arte è finita? È finita quando lo decido io.»

Questo è Jago. Che poi è il nome che ha scelto di darsi come artista. Jago diventa noto a 24 anni per un busto in marmo di papa Ratzinger con indosso la veste pontificia. È un’opera che si ispira al ritratto di papa Pio XI di Adolfo Wildt. Su segnalazione della storica dell’arte Maria Teresa Benedetti, il curatore Vittorio Sgarbi vuole Jago alla 54esima Biennale di Venezia.

Dice lui. «Ho frequentato il liceo artistico e poi mi sono iscritto all’accademia delle belle arti a Frosinone, che non ho finito. Cioè, l’ho finita perché ho detto basta, chiuso il discorso. Quando al secondo anno è cambiato il docente di scultura, ci fu il problema. Mi invitarono a partecipare alla Biennale di Venezia. Stavo scolpendo “Papa Ratzinger vestito”. Lo vide Sgarbi, disse: “Chi è lui?” E mi invitò. Quando tornai, felice, dal professore, gli dissi: mi hanno invitato alla Biennale, è una bella cosa. E lui disse: “No, sono io che devo decidere se sei all’altezza di partecipare a una cosa del genere. Se sei adatto lo decido io”. Io non gli ho dato retta e ho partecipato. È come se uno ti dice: “Te lo dico io quando sei pronto a far l’amore”. Tu sei pronto quando lo fai. Così funziona la vita. Io partecipai e da quel momento mi bloccò. Non potevo dare gli esami. Tutto quello che facevo era ridicolo, non all’altezza. Non c’era comunicazione. E io ero frustrato perché sapevo esattamente quello che volevo fare, che è quello che faccio oggi e che viene addirittura riconosciuto. Però lì era sbagliato, dovevo andare oltre. Quando me ne sono andato l’ho ringraziato dicendogli che tu sei l’immagine di quello che non vorrò mai essere. E mi ha cambiato la vita […] perché quell’opposizione mi ha dato ancora più forza. Aver abbandonato l’accademia è stata una fortuna perché sono uscito fuori […]. Uscito dall’accademia, in qualche modo, dovevo occuparmi di me stesso. Non avevo voglia che qualcuno si occupasse delle mie cose. Allora ho pensato: io voglio scolpire in diretta, così le persone diventano parte della cosa. Mi scrivono. Gli rispondo. E così la mia opera cambia. E se alla fine mi piace vuole dire che alla fine qualcosa di buono è successo. Se proprio sono un artista, sono un artista social.»

È l’altro lato della medaglia. Nell’arte e, forse, nella vita. Dire no al tuo professore. Perché sai che quel no rappresenta il tuo bene. Altrettanto sorprendente è l’ascolto del pubblico per realizzare un’opera social. Perché è sorprendente? Perché in Italia appena uno ha un minimo di successo sale sul palco, prende le distanze e ascolta solo se stesso, l’eco del suo successo. Lui invece si inventa l’opera condivisa con il pubblico.

Accanto a Jago c’è un sasso. È scolpito al suo interno.

Dice lui. «Si chiama “Muscolo minerale”. È un cuore di marmo che ho scolpito all’interno di un sasso di fiume. Tu immaginati che c’è una cava dove viene tirato fuori il marmo. Per trasformarlo in un blocco, producono degli scarti. Quegli scarti venivano buttati giù dalla montagna. Sotto la montagna, di solito, c’era il fiume. Il fiume faceva una cosa incredibile. Levigava. Lì ho capito che il fiume è il più grande scultore perché restituiva a quegli scarti una dignità naturale. Li ricontestualizzava. Una cosa fantastica. Allora quando ho capito questo, come potevo distruggere quella bellezza. Allora ho cominciato a fare delle cose dentro il sasso. E ho iniziato a fare il video che deve raccontare come si apre questo sasso e cosa c’è dentro. Perché le persone che vedono l’opera devono capire come l’hai fatta. Facendo l’opera, scolpendo, ho raccontato quello che secondo me è il senso di fare scultura. Prendersi la responsabilità di scegliere. Perché dentro c’è un numero infinito di forme, potenzialmente. E ognuno di noi ne può immaginare una, ma l’artista si assume la responsabilità di sceglierla. Io vedo questo.»

Il grande scultore, da sempre, trasforma il marmo in pelle e vene. Jago però è andato oltre. A pelle e vene ha dato vita.

Dice lui. «Questo cuore, questo muscolo minerale, non è stato altro che un punto di partenza, un inizio per andare oltre. E quell’oltre era vedere questo cuore muoversi. Quindi ho realizzato la serie di “Apparato circolatorio”, che sono trenta cuori in ceramica, che, fotografati uno dopo l’altro, realizzano una pulsazione. Trenta cuori per un battito. Messi in loop vedrai il cuore che batte.»

Jago, l’altro lato della medaglia, l’ha tirato fuori fin da piccolo.

Dice lui. «Quand’ero piccolo mia madre mi portava in luoghi tipo il Vaticano e mi diceva: “Guarda quella cosa l’ha fatta Michelangelo. Una persona sola è in grado di fare quello.” E tu che sei un ragazzino dici anche io vorrei tanto. Sognavo di essere così grande. Io non mi vergogno di dirlo. È bello quando hai un punto di riferimento. Non è un limite invalicabile. Non devi per forza stare al di sotto di quello perché devi essere umile. È umiliante mettersi al di sotto. Quando dico queste cose dicono che sono un montato. Invece è importante pensare, con umiltà, lui ha fatto quello, anche io lo posso fare. E ci provi. Mal che vada avrai fatto qualcosa di interessante.»

Sballano una cassa di legno e dentro c’è la scultura di una vecchia.

Dice lui. «Questa è la “Venere” […]. Ho realizzato per quest’opera un video. Volevo dire: cosa significa vedere l’opera all’interno del blocco di marmo. Ho iniziato a scolpire l’opera dall’alto fotografando ogni giorno le fasi della lavorazione. Per sei mesi. Alla fine ho visto sul mio cellulare il video. Ed è stato incredibile perché vedi un blocco di marmo che si spoglia. Ogni giorno poi le persone hanno visto, in diretta, il lavoro. E hanno partecipato in tempo reale. E mi hanno aiutato a capire il mio lavoro. È stato incredibile. Per non dire di quante persone hanno commentato: “Ti piace scolpire i vecchi?” In forma di disprezzo. Mentre io voglio celebrare questo tipo di bellezza. C’è una relazione tra quest’opera e papa Ratzinger. È chiaro, sono persone anziane. È il corpo. È la sua bellezza. La sua dimensione. Non voglio nascondere queste cose.»

Jago, l’altro lato della medaglia, ce l’ha anche per la fruizione dell’arte.

Dice lui. «Il più bel museo è la città. Giri in un angolo e vedi qualcosa. La prima opera che ho venduto si trova nella hall di un hotel a Roma, tra via Amendola e via Gioberti. Entri e te la vedi. La prima mostra che ho fatto in un museo è stata al Carlo Bilotti a Villa Borghese. L’opera del “papa vestito” nasce per proporla alla Biblioteca Vaticana dopo la ristrutturazione del 2010. E non fu accettata. Ho ritratto papa Ratzinger e ho fatto un errore perché l’ho voluta interpretare troppo. E quindi gli ho bucato gli occhi, citando l’opera di Adolfo Wildt. Ma alla segreteria del Vaticano non piacque perché poteva ledere l’immagine del papa. Mi dissero: “Glieli vuoi riempire?” E io ho detto no, perché mi sarei violentato. Fai una cosa che sai che ha un senso e poi la cambi pur di metterla in un posto per dire guarda che bello ho un’opera in Vaticano? Ma che me ne frega. Io ho fatto quella cosa. Se ti piace bene, se non ti piace va bene lo stesso.»

Poi succede che Ratzinger si dimette. E Jago modifica il busto originale, rappresentando il papa emerito a torso nudo, intitolando la scultura “Habemus Hominem”, nell’immagine del rappresentante di Dio tornato a essere uomo.

Dice lui. «Faccio un’altra mostra […] ed espongo papa Ratzinger dietro a un muro col buchino della serratura e l’inginocchiatoio. Quindi se lo volevi vedere dovevi inginocchiarti per guardare attraverso il buchino. A mostra finita, il giorno in cui tiro fuori l’opera, tiriamo giù il muro, mio padre mi manda un messaggio per dirmi che Ratzinger si era dimesso. Istantaneamente mi sono detto che avevo l’opportunità di fare qualcosa di nuovo. Il papa è un uomo. E a me è l’umanità che mi interessa. Ho semplicemente scolpito il corpo di uomo. Ha una poetica il corpo. Non è che noi siamo importanti soltanto quando siamo agghindati. Che me ne frega dei paramenti sacri. C’è più sacralità in un corpo perché racconta una storia dal suo punto di vista.»

Ecco. Questi sono i me ne frego di Jago. Al suo professore, all’avere un’opera in Vaticano e all’importanza di agghindarsi. I me ne frego di Jago me ne ricordano un altro, meraviglioso. È il 1980. Alla fine di un concerto trionfale di Franco Battiato, Dario Fo lo aspetta all’uscita e gli dice: “I tuoi testi non mi piacciono”. E Battiato gli risponde: “E a me che cazzo me ne frega?”. Spiegandola così: “A quel punto eravamo sullo stesso piano”. E continua: “Se mi avesse criticato in un’altra maniera avrei anche apprezzato. È sempre il modo. Si può essere critici senza essere brutali”.

Come dicevo all’inizio. L’importante è sapere dove vogliamo andare. Se ti piace bene, se non ti piace va bene lo stesso. Prendersi la responsabilità di scegliere, anche sbagliando.

Dice Jago. «La mia vita è fatta di fallimenti, per scolpire qualcosa bisogna prima romperla.»

L’altro lato della medaglia è anche questo: rompere gli schemi per trovare se stessi. In definitiva, ci sono soltanto due modalità per approcciarsi all’arte – e probabilmente anche alla vita stessa. Da un lato ci sono quelli che rispettano le regole, dall’altro lato ci sono quelli che le regole se le fanno da soli. E Jago sta qui, a scolpirsi il suo mondo.

© Michele Mengoli

PRESTO IL VIDEO RACCONTO © Black Sheep Strategy