La tragica storia del Parsifal

Mettetevi davanti a un palazzo di tre piani e guardate verso il tetto. Tra poco vi cadrà addosso. Il tetto. E tutto il palazzo. Con la rincorsa. Come se avesse le gambe. Come se l’intero edificio, di slancio, vi saltasse sopra a piedi pari. È successo davvero. Non era cemento, ma acqua. A fermare quel crollo, ineluttabile per la natura e fatale per gli uomini, non c’era asfalto ma quasi tre chilometri di abisso, nel Golfo del Leone.

Dopo quel condominio di mare sulla testa, immaginatevi di sballottare su e giù per ore, dalla cantina al sesto piano. Non a piedi, attraverso le scale, ma nuotando nella burrasca, con il vento che tocca punte di 77 nodi, ossia 142 chilometri all’ora. Tutto ciò è successo a nove velisti, in quella che la marineria di tutto il mondo ricorda come la Tragedia del Parsifal, meraviglioso cutter di sedici metri in mogano e teak disegnato da Carlo Sciarrelli e costruito nel cantiere navale Carlini di Rimini.

È accaduto il due novembre del 1995, quando il Parsifal partecipa alla tappa di trasferimento verso Casablanca della regata transatlantica “Transat des Alizès”, partita da Sanremo e con destinazione finale a Guadalupa, nelle Antille. Il vento – il Mistral, che per noi italiani diventa Maestrale – si incanala nella valle del Rodano e sferza il famigerato Golfo, che i marinai chiamano semplicemente “Il Leone”. Un vento che in quel preciso punto d’Europa, 65 miglia a nord-est di Minorca, di fronte alle coste spagnole, francesi e italiane, che sembrano un anfiteatro, soffia in media a oltre trenta nodi e spesso supera i cinquanta nodi, con l’ulteriore effetto prodotto da quella fetta imbizzarrita di Mediterraneo, che ribolle e crea un’onda corta che cresce e arriva con facilità a sei o sette metri di altezza.

Le condizioni, intorno alle ventuno e trenta, sono di forte burrasca e il Parsifal, a trenta miglia da Minorca, naviga a una velocità di dieci nodi con il mare quasi in poppa, con vento intorno a quaranta nodi e in una situazione di apparente tranquillità, tanto che si decide di far riposare tutto l’equipaggio e in coperta rimangono soltanto lo skipper Mattia De Carolis, nel pozzetto, e Carlo Lazzari, al timone. D’un tratto, però, compare a prua un’onda anomala gigantesca, e lo straordinario diventa eccezione e dramma.

Carlo Lazzari è il primo a vederla. Urla a Mattia De Carolis: «Guarda davanti.»

E lui sussurra: «Siamo morti.»

Il palazzo di tre piani si abbatte sulla coperta, sfonda un osteriggio centrale e il gavone di poppa; spazza via il pozzetto dei vari strumenti e strappa la zattera di salvataggio fissata alla coperta con tiranti d’acciaio ai piedi dell’albero, spezzato anch’esso e finito in acqua in tre tronconi, portandosi appresso ogni tipo di ricezione e invio di segnali: dai radar al Gps, dai sistemi elettronici fino alle antenne paraboliche per la telefonia. Compreso l’Epirb – il localizzatore d’emergenza che una volta attivato (in modo manuale o automaticamente per immersione o a seguito di urti) segnala in qualsiasi parte del pianeta la sua posizione – che si allontana velocemente dalla barca. L’onda ha anche divelto l’asse e la ruota del timone, strappando Carlo Lazzari dalla “life-line” e scaraventandolo in mare.

«Per la seconda volta pensai di essere morto – dice Carlo Lazzari – e dopo istanti che durarono un’eternità, riaffiorai in superficie, vidi la barca a qualche metro di distanza e non so come riuscii a risalire a bordo con l’aiuto di Mattia.»

Purtroppo non per molto, giusto cinque minuti. Difatti l’equipaggio ha appena il tempo di radunarsi per racimolare due taniche vuote e un parabordo, metterli insieme con una scotta e farne una zattera di fortuna. Accorgersi che manca un uomo, Giordano Rao-Torres, l’armatore, che nell’impatto con l’onda sbatte la testa contro un’ordinata e si frattura uno zigomo. Lo trovano svenuto nella cuccetta di prora. Si riprende appena in tempo per tuffarsi per ultimo, pochi istanti prima che il Parsifal si inabissi.

L’acqua misura diciassette gradi. Le tabelle di sopravvivenza, con questa temperatura, dicono che si resiste per quattordici ore.

Il picco massimo delle onde, nelle ore successive, resta quello di un palazzo di tre piani ma il dislivello fra la cresta e il fondo dell’onda arriva a cinque o sei piani, in altre parole quindici metri di scarto, e il vento nebulizza l’acqua e anche soltanto respirare diventa una vera e propria impresa. I ragazzi del Parsifal si fanno forza uno con l’altro ma il freddo e l’acqua nei polmoni sono micidiali. La potenza delle onde e il vento li allontana e li riavvicina e in quel ballo disperato sono in sei a cedere, uno dopo l’altro, durante la notte, illuminata da una luna piena enorme. Poco dopo mezzanotte il primo è Luciano Pedulli (47 anni), nonostante il bocca a bocca e il massaggio cardiaco di Carlo Lazzari, inutili. Nell’ora seguente se ne vanno Francesco Zanaboni (22 anni) e Giorgio Luzzi (59 anni). Verso le tre del mattino capitola Mattia De Carolis (36 anni).

Queste le sue parole sussurrate a Carlo Lazzari: «Scusa, ma non ce la faccio più, di’ ai miei genitori e alla mia ragazza che li ho tanto amati.»

Un’ora dopo ancora un’altra onda gigantesca porta via Ezio Belotti (34 anni). E dei sei compagni dell’equipaggio scomparsi viene recuperato solo il corpo di Daniele Tosato (37 anni), andato alla deriva per una decina di ore.

A quell’inferno sopravvivono in tre: Carlo Lazzari, Andrea Dal Piaz e Giordano Rao-Torres, che vengono ripescati da un elicottero spagnolo il giorno successivo alle quindici e trenta, dopo diciotto ore trascorse in mare, nel mare di novembre al Leone, quattro ore in più di quelle previste dalle tabelle di sopravvivenza massima, ognuno dimagrito una decina di chili.

«Dall’onda anomala tutto è andato storto – continua Carlo –. Dalla nostra zattera di salvataggio, che è volata via, fino alle due che ci hanno lanciato da un aereo ricognitore prima di recuperarci con l’elicottero: una è rimasta chiusa, l’altra, capovolta, è risultata inutilizzabile nonostante i nostri sforzi immani. A salvarci è stato l’Epirb, però il segnale di soccorso è stato recepito quando eravamo già naufragati da quattro ore. Comunque al Leone avevamo scelto tutti insieme di andarci, calcolando i rischi, accettandoli, e non è che ci vai pensando che se qualcosa va storto poi tanto arrivano i soccorsi. Mi resta il rammarico di non essere riuscito a salvare i miei compagni, ma io stesso alla fine non riuscivo più a nuotare e ci ho messo tre anni per recuperare dopo quelle diciotto ore trascorse in mare.»

«L’equipaggio ha provato ad aiutarsi fino alla fine – commenta Andrea Dal Piaz – perché eravamo uniti e in sintonia anche nello strazio di quelle ore ma semplicemente eravamo nel posto sbagliato al momento sbagliato: dal boato dello schianto con quella montagna di acqua sino all’elicottero che ci ha tirato fuori l’onda più piccola che abbiamo visto era alta quattro metri. Noi ci siamo salvati perché eravamo i più robusti. Per una questione di metabolismo, fortuna e destino. Quando arrivarono i soccorsi, io svenni e mi risvegliai soltanto il giorno dopo. I dottori mi dissero che bastava un’altra mezz’ora e sarei morto anch’io. A Minorca facemmo una settimana di ospedale e poi con Carlo ne trascorsi un altro paio a Rimini per la polmonite e l’acqua nei polmoni. E certe immagini di quelle ore mi accompagneranno finché avrò vita.»

«La vita è strana – aggiunge Giordano Rao-Torres –. Mi diedi alla vela per combattere lo stress lavorativo e me ne innamorai talmente tanto da diventare armatore del Parsifal, che feci costruire con i risparmi di una vita per navigare fino ai Caraibi e poi alle Figi, mentre l’idea di partecipare alla ‘Transat des Alizés’ fu di Daniele Tosato, dopo che vinse il Giro del mondo per barche da crociera. All’ospedale spagnolo dove ci ricoverarono, mi misurarono trentaquattro gradi di temperatura corporea e 7,14 di PH. In pratica ero morto. Da quella volta, tutte le sere che contemplo un tramonto, avrei voglia di navigare verso la Spagna, inseguendo il sole che scompare all’orizzonte.»

Giordano prende una pausa e aggiunge: «Ma per rispetto al sacrificio dei sei cari amici del Parsifal che hanno perso la vita nel Leone, non sono più andato in mare con una barca a vela.»

© Michele Mengoli

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