Sasha che vola dalla finestra della scuola

Lasciate perdere l’attualità. In questa storia non c’è nessun messaggio nascosto. È soltanto una storia realmente accaduta. Che merita di essere raccontata. Oltre lo schifo della guerra. Soprattutto è la storia di un gesto. Lo compie Sasha, un adolescente russo, in una scuola italiana. È un gesto che non pensa al domani e che ci fa riflettere sul senso della vita.

Immaginatevi due scuole, una di fronte all’altra. La prima è un istituto alberghiero. L’altra è un istituto d’arte. Due muri di finestre che si guardano a vicenda, con centinaia di occhi adolescenti che dividono la scena in due posture differenti: sguardi dritti come allo stadio, tra tifosi di curve contrapposte; sguardi di traverso, come in coda al semaforo, oltre i rispettivi finestrini. Con un formicaio continuo di alunni e insegnanti.
C’è lui, il protagonista. Fa la terza all’alberghiero. È il migliore della classe, anzi, ha i migliori voti di tutto l’istituto. Vuole diventare uno chef. Non ne conosciamo le motivazioni. Se per moda o altro. Fino a qualche anno fa i ragazzini volevano fare i calciatori, oggi i cuochi alla Barbieri-Bottura-Cracco.
Sappiamo che è il migliore dell’istituto e per lui è già sicuro un posto nello stage più stellato al termine della scuola, perché così ha deciso il preside, a furor di corpo insegnanti.
Il protagonista ha un nome corto e letterario: Sasha. E per la scuola è Il russo. È biondo, ha gli occhi azzurri e lo sguardo calmo, che non abbassa mai. Sasha russo lo è davvero, come la madre con cui vive qui da noi, come il padre, che se ne è andato chissà dove, per una pratica che pare piuttosto diffusa per i maschi di quel paese.
L’aula della sua classe è al secondo piano. Sasha è alla finestra e guarda fuori, poi di sotto. I compagni sono al loro posto. L’insegnante è alla cattedra, alza la testa e lo vede in piedi. Studia la sua maglietta bianca a righe blu, sottili, e gli viene in mente che l’ha già vista in diversi film, addosso ai marinai sovietici. Sorride. D’improvviso non ha più tempo per sorridere perché Sasha dice ad alta voce «Io ce la faccio». Apre la finestra, sale sul davanzale e si butta giù.
Secondo piano.
Primo piano.
Cemento del cortile.
Almeno cinque metri di spazio tra il davanzale e l’asfalto. Almeno.
Tutti – insegnante compreso – fanno «Oooohhhhhh» all’unisono verso il vuoto che ha lasciato nell’aula e in un istante sono ammassati alle due finestre a guardare di sotto.
Vedono un’immagine che non dimenticheranno per il resto della vita.
Lui, in piedi, come se non lo avesse fatto davvero, come se avesse preso le scale per arrivarci, sano e salvo, a testa alta.
Qui, dice l’insegnante, c’è l’unica incongruenza nelle varie versioni: chi dice che sorrideva e chi, invece, che era impassibile.
Prima si è sentito un brusio, poi una specie di boato acuto. Le finestre di fronte, quelle dell’istituto d’arte, erano già piene di studenti, increduli per quel gesto.
Sasha ha alzato la testa verso i compagni. Ha detto «Sì». Ed è tornato in classe.
Questa storia me l’ha raccontata un’insegnante. È una storia vera, accaduta nell’anno scolastico 2012-2013. Parla di fortuna, di destino. Di regole da rispettare, belle da infrangere. Di giovinezza, che non pensa al domani. Di adulti che contro la loro volontà sono spettatori di un eroismo del tutto inaspettato, inconcepibile, inutile e fuori luogo, che prima fa incazzare, poi sorridere e dopo, a freddo, forse, nonostante tutto, invidiare, per quello che noi, con razionalità, non saremmo mai in grado di fare. Nel bene o nel male.

© Michele Mengoli

PRESTO IL VIDEO RACCONTO © Black Sheep Strategy